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1951-1960: Berruti corre per tutti noi

Sport &  Medicina, 150 anni della nostra vita

1951-1960

Berruti corre con noi

 


Livio Berruti che si getta sul filo di lana e poi ruzzola in terra, felice di sbucciarsi gomiti e ginocchia, è l'immagine simbolo in chiave azzurra dei Giochi di Roma nel 1960. È il 3 settembre, all’Olimpico si corrono i 200 metri. Il ventiduenne torinese è il favorito, in semifinale ha stabilito il record del mondo con 20"5, ma i pronostici sono scritti sulla sabbia. Nella storia moderna dei Giochi soltanto un europeo, l'inglese Harold Abrahams, ha vinto, nel 1924, l'oro in una gara di velocità. Per il resto è stata una sequenza quasi ininterrotta di sprinter statunitensi (22 vittorie su 27 corse) con l’intervallo di tre velocisti canadesi e di un sudafricano. Gli italiani nel frattempo nemmeno avevano sfiorato il podio. Al colpo di pistola, Berruti scatta in anticipo: partenza nulla e nervosismo alle stelle. Il pubblico che gremisce lo stadio trattiene il fiato. Nuovo sparo e stavolta i sei finalisti partono simultaneamente. Il ventunenne torinese Berruti vola come un angelo, in curva è già primo, entra nel rettilineo finale con un paio di metri di vantaggio ma non è finita: l'americano Carney si avvicina pericolosamente, l'Italia schierata compatta davanti alla tv trema di paura ma Berruti si getta sul filo di lana (allora c’era per davvero) e il Paese esplode in un boato: Livio Berruti ce l’ha fatta, oltretutto è un campione di modestia. Sono Olimpiadi che fanno storia, quelle del 1960. Per la presenza di campioni straordinari come Cassius Clay, Abebe Bikila e Wilma Rudolph, ma anche e soprattutto per i nostri portacolori. L'Italia, infatti, vince ben tredici medaglie d'oro. Oltre a Berruti, gli ori vengono dal pugilato (Benvenuti, De Piccoli e Musso), dal ciclismo (Sante Gaiardoni nella velocità su pista e nel chilometro da fermo; Bianchetto e Beghetto nel tandem; il quartetto Trapé, Bailetti, Cogliati e Fornoni nella 100 chilometri a cronometro e il quartetto Arienti, Testa, Vallotto e Vigna nell'inseguimento su pista), due dalla scherma (lo spadista Delfino e la squadra azzurra guidata da Edoardo Mangiarotti), uno dall'equitazione (Raimondo d'Inzeo) e uno dalla pallanuoto (il "Settebello").



Già nel 1952, ai Giochi di Helsinki, c’era stato un risultato inatteso ed esaltante grazie al marciatore Pino Dordoni, vincitore della 50 chilometri con il record mondiale sulla distanza (4h 28' 07"). E pure l’oro nella vela con Agostino Straulino e Nicolò Rode, medaglia d'oro nella classe Star. A livello olimpico, il ciclismo degli anni Cinquanta celebra anche un altro campione: Ercole Baldini che nel 1956 vince l'oro alle Olimpiadi di Melbourne e, ancora dilettante, stabilisce il record dell'ora al Vigorelli di Milano coprendo 46,394 chilometri. Divenuto professionista, il romagnolo Baldini vincerà nel 1958 il Giro d'Italia e il mondiale professionisti su strada a Reims. Negli anni Cinquanta i nostri atleti si fanno onore in tutti i campi, ma lo sport, purtroppo, fa i conti anche con i pregiudizi. Ne sa qualcosa Fausto Coppi che, dopo aver esaltato le folle con la strepitosa doppietta del 1952 (Giro d'Italia e Tour de France vinti alla grande) e il titolo mondiale su strada del 1953 conquistato a Lugano, deve fare i conti con la morale bacchettona del tempo e con le leggi vigenti. Le norme non consentono che accanto a lui compaia sempre più spesso una donna vestita solitamente di bianco, Giulia Occhini, detta appunto "la dama bianca".Questa signora, infatti, è sposata e la coppia viene accusata di adulterio. Oggi l'accusa appare ridicola, ma negli anni Cinquanta non si scherzava con questo genere di reato, tanto che Giulia Occhini deve addirittura subire l'onta del carcere prima di ottenere finalmente la separazione dal marito e quindi poter donare un figlio, Faustino, al "campionissimo".



Data storica del decennio è il 31 luglio 1954, giorno della conquista del K2, montagna dell'Himalaya che con i suoi 8611 metri è seconda soltanto all'Everest, scalato un anno prima dal neozelandese Edmund Hillary e dallo sherpa Tenzing. Il successo italiano arride alla spedizione guidata da Ardito Desio. A piantare il tricolore sulla cima sono Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, ma il merito, correttamente, viene ripartito all'intera spedizione. Da quel giorno il K2 diventa la "montagna degli italiani", anche se non ci facciamo mancare ogni genere di polemica, sollevate dal giovane Walter Bonatti, che accusa Compagnoni e Lacedelli di averlo lasciato indietro a bella posta.

Anche se è nato in Inghilterra, esattamente a Newmarket, Ribot è considerato a pieno titolo un purosangue italiano. Appartenente alla scuderia Dormello Olgiata questo meraviglioso cavallo viene allevato da Federico Tesio e affidato in corsa al fantino Enrico Camici. Con lui in sella Ribot percorre una carriera straordinaria che conclude imbattuto. Tra i suoi successi più eclatanti due edizioni consecutive dell'Arc de Triomphe di Parigi, nel 1955 e 1956. Dalla metà degli anni Cinquanta il mondo applaude Duilio Loi, pugile di gran classe e tecnica, di coraggio e volontà, capace di aggiudicarsi la rivincita sui soli tre avversari che lo hanno battuto in carriera, e soprattutto in grado di dare l’addio, nel 1963, con il titolo mondiale in tasca. Il primo settembre 1960 oltre 60 mila spettatori paganti accorrono allo stadio di San Siro per assistere alla vittoria di Loi sul portoricano Carlos Ortis che gli vale la corona mondiale dei Pesi welter junior. Un successo di pubblico senza precedenti, solo i grandi concerti pop sapranno eguagliarlo. Il tennis italiano propone, sulla terra rossa, il grande talento di Nicola Pietrangeli, capace di fronteggiare fenomeni come l’australiano Rod Laver e di vincere, nel 1959 e nel 1960, il parigino Roland Garros, vero e proprio campionato del mondo sulla terra battuta. Il decennio si chiude, tristemente, il 2 gennaio 1960 con la morte di Fausto Coppi, per “febbri perniciose”, in realtà per malaria non diagnosticata in tempo. Sarebbe bastato del chinino per salvare il “campionissimo”.

 

 

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