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1951-1960: si profilano le malattie del benessere

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1951-1960

Si profilano le malattie del benessere

 


Decennio di svolta gli anni Cinquanta del Novecento: la ricostruzione postbellica è ormai avviata e si pongono le basi per il boom economico che è alle porte. Inizia il cammino che trasformerà l’Italia, in pochi anni, in una delle maggiori potenze industriali del mondo. Le malattie infettive sono ormai al tramonto, insieme alla realtà di un Paese unito sì politicamente, ma arretrato, a vocazione rurale, incapace di assicurare condizioni igienico-sanitarie dignitose a larghissimi strati della popolazione. Le statistiche ci raccontano di mortalità per malattie infettive in evidente calo: il dato passa, nel ventennio che va dal 1935 al 1955, dall’1,7 per mille abitanti allo 0,42. Nel medesimo periodo la mortalità causata dal cancro passa dallo 0,86 per mille abitanti all’1,27; quella per malattie cardiovascolari dall’1,98 al 2,54. Sono, queste ultime, le malattie del presente e, perché no, del benessere.

La rivoluzione farmacologica ha dei risvolti che vanno ben oltre il piano strettamente scientifico, quello che consente cioè di curare meglio se non di sconfiggere le patologie più gravi. Essa comporta un diverso approccio alla malattia e al malato e l’affermarsi di una concezione del tutto nuova della scienza medica e della professione di medico. La grande fiducia che quest’ultimo ripone nel farmaco comporta effetti non completamente positivi. Viene esasperata la dimensione tecnica del medico, la sua capacità cioè di individuare la miglior cura praticabile, di essere quindi aggiornato sulle ultime novità farmacologiche. Non si può proprio parlare di determinismo, cioè di una tendenza a privilegiare la meccanicità dell’atto medico, ma di certo comincia a diffondersi l’attitudine a considerare l’individuo-paziente più come soggetto cui applicare terapie efficaci che come essere umano da valutare nella sua dimensione psicologico-antropologica.

Già sul finire degli anni Trenta, a dire il vero, si era assistito a una burocratizzazione della professione. Anni prima che i film con Alberto Sordi ne immortalassero, in chiave satirica, la figura, il medico della mutua era imputato di non avere sufficienti attenzioni verso i pazienti, troppo numerosi. Si rimpiangeva il vecchio medico condotto, emblema di un’Italia povera, contadina e senza pretese, che andava man mano scomparendo. Il sistema mutualistico abbozzato dalla legislazione fascista, per quanto frammentario e farraginoso, rimane anche nel Dopoguerra l’architrave su cui poggia il sistema sanitario nazionale. La Costituzione della neonata Repubblica garantisce all’articolo 32 “la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo”, ma i tentativi di dare maggiore organicità alla sanità pubblica vanno a vuoto. In compenso è tutto un proliferare di enti mutualistici, intorno ai tre cardini rappresentati da Inam, Inps e Inail. La cosa di per sé è positiva, in quanto la nascita di casse mutue risponde all’esigenza di coprire categorie professionali precedentemente sprovviste di tutela, ma nel contempo fa perdere di vista l’obiettivo di una strategia globale. L’istituzione, con la legge 296 del 13 marzo 1958, del Ministero della Sanità, non cambia di molto le cose: persistono forti squilibri qualitativi nell’assistenza che si fornisce ai cittadini, dovuti a motivazioni geografiche, finanziarie e organizzative. Primo ministro della Sanità della storia repubblicana è Vincenzo Monaldi (1899-1969). Di origine marchigiana, combattente nella Grande guerra, si laurea in Medicina per poi specializzarsi in Tisiologia, materia che insegna all’Università di Napoli; per quattro legislature siede in Senato nelle file della Democrazia cristiana.

Paradossale che quanto più i progressi farmacologici si intensificano, tanto più le “nuove malattie” sfuggono a una precisa eziologia. In altre parole, patologie sempre più diffuse come i tumori e l’arteriosclerosi non sono riconducibili a una causa ben definita; se ne ignorano le origini o al limite si parla di origini multifattoriali. In assenza di un agente biologico esterno che, senza possibilità di equivoco, venga ritenuto colpevole dell’attività patogena, il medico sa di non avere per le mani strumenti terapeutici risolutivi: il bersaglio è chiaro ma le frecce al suo arco devono essere più d’una.

In Italia il Nobel per la Medicina manca dal 1906, dai tempi di Camillo Golgi. Colma la lacuna, nel 1957, il già menzionato Daniel Bovet. Svizzero di nascita e francese di formazione scientifica, Bovet diviene cittadino italiano nel Dopoguerra, quando comincia a lavorare presso l’Istituto superiore di sanità. Dopo aver aperto l’era dei sulfamidici, conduce ricerche fondamentali sugli antistaminici e i curari di sintesi; il prestigioso riconoscimento gli viene conferito “per le sue scoperte sui composti sintetici che inibiscono l’azione di alcune sostanze dell’organismo, in particolare la loro azione sul sistema vascolare e i muscoli scheletrici”. Di grande rilievo, negli stessi anni, l’attività di Giuseppe Moruzzi (1910-1986), dal 1949 direttore dell’Istituto di fisiopatologia dell’Università di Pisa. Vi arriva reduce da Chicago, dove ha condotto, insieme al collega Horace Magoun, studi sul sistema nervoso sfociati nella scoperta del Sistema reticolare attivatore ascendente (Sraa). Studi che dimostrano come lo stato di veglia sia mantenuto da un continuo bombardamento di impulsi proiettati sulla corteccia cerebrale dal suddetto sistema. Antesignano delle neuroscienze, Moruzzi è anche il prototipo dello studioso che non si chiude con il suo staff nella torre d’avorio del sapere ma crede fermamente nella circolazione delle idee, convinto di dare un contributo importante alla formazione di una comunità scientifica italiana degna di questo nome.

Alla Conferenza internazionale della poliomielite tenutasi a Roma nel 1954, il polacco americanizzato Albert Sabin (1906-1993) presenta i suoi studi sul vaccino antipolio, per via orale, che sta sperimentando a Cincinnati. I risultati si riveleranno presto clamorosi, ma il vaccino di Sabin verrà adottato in Italia soltanto nel 1964.

 

 

 

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Ultimo aggiornamento (Giovedì 19 Maggio 2011 12:10)