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1961-1970: paramorfismi e malattia ipocinetica

Sport &  Medicina, 150 anni della nostra vita

1961-1970

Paramorfismi e malattia ipocinetica

 


Nel secondo dopoguerra cambiano i ruoli e lo stile di vita, da un’economia rurale e artigianale si passa a un assetto industriale, con una rilevante urbanizzazione dettata da forti flussi migratori interni. Cambiano le abitudini alimentari, diretta conseguenza di una situazione economica molto migliore − non a caso si parla degli “anni del boom” − ma il rovescio della medaglia è la comparsa di una sindrome da insufficiente attività fisica. Per primi, nel 1961, la riscontrano Kraus e Raab che la definiscono “malattia ipocinetica”. I segnali inequivoci della sindrome sono la carenza o mancanza di adattamento di alcuni apparati alle modificazioni indotte dallo sviluppo, all’attività fisica intensa e alle sollecitazioni, sia fisiche sia mentali, della vita di tutti i giorni. Nell’età dello sviluppo, le alterazioni a carico di questi apparati, i “paramorfismi dell’età evolutiva” prendono sempre più piede. Sono i primi segnali dei paramorfismi metabolici (sovrappeso in continuo aumento nell’età evolutiva, con conseguente incremento dell’obesità) che cominceranno ad affliggere il Paese già negli anni Settanta, per arrivare alla quota attuale: venti ragazzini su cento sono oggi sovrappeso, quattro su cento sono obesi.

La medicina più utile, il movimento fisico, prende piede all’inizio degli anni Sessanta, come forma di contrasto ai paramorfismi. L’esercizio continuativo consente ai giovani di migliorare le capacità di adattamento. Di qui la necessità di infrastrutture che prevedano spazi utili, in primo luogo nella scuola dell’obbligo. Gli anni Sessanta si occupano sia del bagaglio culturale dei giovani ma anche del loro sviluppo psicofisico, il più armonico possibile, tanto che si stabiliscono le ore scolastiche dedicate all’educazione fisica. Minimo due la settimana. La prevenzione si affaccia in termini di corrette posture, a limitare e correggere atteggiamenti scoliotici, si ragiona di postura sia in piedi sia da seduti, e la medicina dello sport comincia a occuparsi di progressione e gradualità nell’allenamento, qualsiasi sia la disciplina presa in considerazione. Si affacciano anche gli esercizi di autoallungamento, entrano in gioco lo stretching, la rieducazione propriocettiva, gli esercizi isometrici, di contro resistenza e di tonificazione degli addominali.

I grandi obiettivi degli anni Sessanta, grazie all’attività fisica (e motorio-sportiva) sono la mobilizzazione articolare, il miglioramento della capacità di percezione del proprio corpo, il potenziamento della muscolatura, il miglioramento del potenziale aerobico. Il fine ultimo è il miglioramento delle relazioni sociali e lo sviluppo dell’autostima. I medici dello sport vengono sempre più interrogati in merito a quale sport sia da suggerire nell’età evolutiva, prescindendo dalle aspettative dei genitori, che sovente onorano le sole loro ambizioni. Nella fase di avviamento si stabilisce che meglio sarebbe indirizzare verso gli sport di destrezza e quelli di squadra. Con un patto di fondo: il gioco è la base per i primi passi verso lo sport, è il processo educativo dal quale non si può prescindere, ma iniziare qualsiasi attività nell’età evolutiva genera l’attitudine al movimento che non sarà mai più dimenticata.

La guerra al doping affila, nel periodo, le sue armi. Il primo laboratorio europeo di analisi viene insediato a Firenze nel 1961 e si occupa in particolare di due sport: ciclismo e calcio. Il mondo del pallone entra nel mirino al pari di quello delle due ruote, ma i prodotti allora investigati sono banali eccitanti, amfetamine, gli stessi che assumono gli studenti prima degli esami. Simpamina e metedrina sono gli attivatori del tempo; confrontati ai farmaci di sintesi presenti ai giorni nostri fanno quasi sorridere. I dati li fornisce la Federcalcio: il 17% dei calciatori di serie A e B fa uso in gara di amine psicotoniche, stimolanti della vigilanza e, per questo, chiamate anche “pillole della gioia”. Pochi anni più tardi al laboratorio di Firenze si affiancherà quello del Centro CONI dell'Acquacetosa a Roma, affidato alle cure della Federazione medico sportiva italiana, che svolgerà un ruolo chiave sino alla fine degli anni Novanta, quando il laboratorio romano sarà chiuso per un triennio.

Un impulso sicuramente positivo viene nella metà degli anni Sessanta quando il CONI istituisce l’Istituto di Scienze dello sport, affidato al professor Antonio Venerando. Grazie a un direttore lungimirante la ricerca affina gli studi sulle performance di atleti di elevato valore, in particolare di chi è selezionato per partecipare ai Giochi olimpici.

 

 

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Ultimo aggiornamento (Mercoledì 25 Maggio 2011 15:14)