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1871-1880: tramonta il "giuoco del pallone"

Sport &  Medicina, 150 anni della nostra vita

1871-1880

Tramonta il "giuoco del pallone"

 


Pur così lontani dai giornali ai quali siamo oggi abituati, i fogli che si stampano nella seconda metà dell’Ottocento riflettono perfettamente la società dell’epoca: la stampa periodica, in quel momento largamente presente (sono rari i giornali quotidiani, si limitano alla Gazzetta di Parma e alla Gazzetta di Mantova), è figlia di chi la scrive e di chi ne usufruisce: sostanzialmente un’élite ristretta, tutta borghese.



L’analfabetismo è una piaga che affligge il Paese, nel quale si va imponendo un’identità nazionale senza cercare di affermarvi un’identità culturale. Chi parla il dialetto, i molti dialetti che accompagnano ogni regione d’Italia, della neonata Italia, spesso non sa scriverlo. In questo quadro intorno agli anni Settanta dell’Ottocento fa la sua apparizione l’editoria sportiva, che avrà crescente successo grazie alla bicicletta, per il momento chiamata velocipede o biciclo. Mentre nel Regno Unito, e altrove in Europa, si diffonde una sana mentalità agonistica, grazie alla quale non poche discipline si avviano a diventare sport a larga diffusione, bisogna attendere gli ultimi anni Settanta per veder organizzate in Italia le prime gare di bicicli: il Giro dei Bastioni milanesi vale la prima prova in circuito, mentre la Milano-Novara, la Milano-Piacenza e la Milano-Cremona rispondono alla qualifica di gara in linea. Ovvio, si gareggia su percorsi in terra battuta, con divise sportive che non si discostano molto dalla moda dell’epoca: i biciclisti indossano completi con pantaloni lunghi e stretti; in testa, immancabile, il cappello. Ben presto a Milano nascono le piste, sempre in terra battuta, sulle quali, inanellando giri, i ciclisti si danno battaglia.

Alla scarsa diffusione dello sport ai primordi dell’Italia unita contribuisce il brusco tramonto di una disciplina largamente popolare, il “giuoco del pallone”. Non il calcio, si badi, bensì una via di mezzo tra il tennis e la pallavolo, con due squadre che si fronteggiano, ciascuna con quattro giocatori impegnati a conquistare punti o a costringere l’avversario all’errore. L’attrezzo per giocare è un bracciale in legno legato all’avambraccio, ma è consentito anche l’uso del pugno sinistro e di uno dei piedi. Il gioco prevede il rinvio della palla al di là della cordicella posta al centro del campo, in spazi delimitati, in modo che l’avversario sia in difficoltà e costretto al secondo rimbalzo. Di qui il fallo e i punti conquistati dai contendenti. Nato per il divertimento dei nobili, il gioco del pallone a inizio Ottocento aveva attecchito nelle piazze e appassionava i giovani, di ogni estrazione, tanto che erano nati campi specifici, denominati sferisteri, in molte zone della Penisola, dal Piemonte al Veneto, dalla Liguria alle Marche. Invece di dargli impulso, come sarebbe stato opportuno, l’unificazione del Paese decreta la fine del “giuoco del pallone”, per gli eccessivi furori campanilistici che lo animano e per l’inutilità del gesto atletico, che non lo apparenta a nessuna disciplina bellica. Di certo il “giuoco del pallone” non prepara alle armi e questo ne mette a repentaglio le sorti: negli anni Settanta numerosi sferisteri sono convertiti in poligoni di tiro. Si spara ben più volentieri, si bada alla mira dei tiratori, può essere utile. Il tiro a segno, sport gradito dal nascente Stato italiano, trova nello stesso Garibaldi un ambasciatore che si prodiga per diffonderlo lungo la penisola.

 



Grande impulso, soprattutto a Torino, ha invece negli anni Settanta il canottaggio, per il contesto in cui s’impone, per il ruolo ricreativo che si ritaglia. Nelle acque del Po si confrontano giovani vogatori molto amici fra loro, molto propensi allo scherzo e ai complimenti che rivolgono alle giovani ammiratrici che, fingendo di nulla, si fermano a fare due chiacchiere sulla riva del grande fiume che bagna la capitale. Nel 1878 il canottaggio italiano importa le prime regole ferree di partecipazione, tutte di estrazione britannica: nei regolamenti dei club inglesi figura, ben evidente, il divieto di partecipare alle competizioni che pongano premi in palio, ma anche l’impossibilità di gareggiare per chiunque eserciti una professione. Lo sport si nega agli operai, agli artigiani, a chi ha un’occupazione e questo sarà vero sino alle Olimpiadi di Londra del 1908. La borghesia difenderà così i suoi privilegi.

Mentre nel 1874 negli Stati Uniti nasce il football americano e nel 1879 in Canada l’hockey su ghiaccio, in Italia si avvia in ogni caso un processo nuovo, degno di attenzione: le prime manifestazioni sportive vedono non solo l’adesione di chi vi partecipa ma anche del pubblico, sempre più numeroso, che vi assiste. Lo sport si fa evento sociale collettivo. Si comincia allora ad affermare che “senza spettatori lo sport ha ben poco senso”: tanto che i cronisti sportivi del tempo possono riferire di “incontenibili entusiasmi, in particolare a bordo strada, da parte di coloro che seguono, sbalorditi, le prime gare in biciclo".

 

Lo sport, da divertimento di élite, inizia a farsi passatempo popolare, l’attività fisica entra nelle logiche quotidiane. Il 7 luglio 1878 il ministro della Pubblica istruzione Francesco De Sanctis introduce nelle scuole l’obbligatorietà della ginnastica, provvedimento che agevolerà la pratica di molte discipline. Sempre più spesso, a fine decennio, si vede gente correre a piedi, procedere con il biciclo, fare ginnastica o nuotare. Parchi, viali e fiumi sono un territorio di conquista per un numero crescente di persone che intendono svagarsi facendo, a vario titolo, del moto. Va anche detto che nel decennio la parte attiva della popolazione è largamente composta da mezzadri analfabeti e da operai che lavorano 13 ore al giorno. Per loro è difficile anche solo immaginare quello che noi, oggi, chiamiamo tempo libero.

 

 

 

 

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