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1891-1900: la svolta di Crispi

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1891-1900

La svolta di Crispi

 


In sordina, senza clamori, la cosiddetta riforma ospedaliera produce i suoi effetti grazie alla legge Crispi, promulgata nel 1890. Il provvedimento stabilisce la conversione e concentrazione all’interno della Congregazione di carità delle opere pie che non rispondono più a effettivi bisogni sociali. Cambiano così gli equilibri nei nosocomi italiani, si modificano le dinamiche interne al sistema, di fatto la comunità medica si riappropria del ruolo che le compete, in ospedale, in ragione della tecnologia che si sviluppa a fine secolo e della costruzione “dell’ordine clinico”. Si passa insomma dalle “pie opere”, sostenute da donazioni volontarie, lasciti caritatevoli, a servizi di “pubblica assistenza” che rispondono a logiche di stanziamenti programmati e finanziati dallo Stato. Il processo coincide con gli evidenti progressi della ricerca batteriologica e fisiopatologica, con le prime ricadute pratiche della medicina antisettica e anestetica. Lo spazio ospedaliero vede un controllo igienico decisamente migliore, essendo finalmente chiari l’eziologia e il meccanismo delle infezioni. Le nuove prassi di antisepsi superano le tradizionali regole d’isolamento, decretano la definitiva dignità della chirurgia, in precedenza in condizioni minoritarie rispetto alla clinica medica.



Si operano rifacimenti e ristrutturazioni negli ospedali, nonostante le resistenze degli amministratori delle antiche opere pie. Illuminante il commento di un grande clinico chirurgo, il pavese Enrico Bottini, nel 1891 fresco di nomina a senatore del Regno, di ritorno da una ricognizione in Germania e Scandinavia. Il suo è un grido di dolore: “Gli ospedali stranieri lo dimostrano, da noi conviene non correggere, ma abbattere, abbandonare e rifare”. Trent’anni prima Bottini era ricorso a una soluzione acquosa di acido fenico per lavare piaghe e ferite, oltre che per disinfettare gli strumenti chirurgici, anticipando le scoperte di Giuseppe Lister. I maggiori igienisti italiani concordano nella necessità, non più rinviabile, di togliere di torno gli edifici monumentali che “nel loro insieme costituiscono le cause del mefitismo secolare, delle insediate malattie d’infezione” che, sia pure in parte ovviate dalla medicazione di Lister, “non sono bandite d’ospitale”.



Un modello per costruire nuovi ospedali viene da Giuseppe Sormani, titolare a Pavia della prima cattedra ufficiale di igiene, autore nel 1881 della Geografia nosologica dell’Italia. Questi i suoi precetti: “ospedali fuori città, non oltre i 400 letti, con padiglioni isolati di 20-40 letti ciascuno, edificati in soli piani terreni e dotati di grandi finestre, aperti su grandi giardini; a ogni letto spettino circa 100 metri cubi di spazio e 15 metri quadrati di superficie. Gli ospedali per infettivi siano costruiti appartati e lo smaltimento di ogni immondizia o putredine sia dislocato lontano dai padiglioni di degenza”. La linea razionale bandisce il lusso architettonico e il superfluo, privilegia il sobrio e l’utile. Oltre al romano Policlinico Umberto I, viene raddoppiato l’Ospedale Maggiore di Milano. Nel decennio nascono un’ottantina di ospedali minori in tutta Italia, ubicati in prossimità delle aree industriali in via di sviluppo, aree in cui, tra le malattie della miseria e quelle del progresso, cresce la domanda di assistenza sanitaria.

Il contrasto al colera, debellato nel decennio che porta al 1900, sancisce lo spartiacque, segna il passaggio dall’età delle epidemie sociali a quella della mortalità controllata. I decessi per malattie infettive subiscono un drastico ridimensionamento: dall’8,1% del 1891 al 5,3% dei primi anni del nuovo secolo. All’evidente calo dei decessi contribuisce la rapida discesa della mortalità per malaria, sempre più arginabile, contenibile negli effetti di morbilità grazie alla progressiva “chinizzazione” del Paese. La chinina è l’alcaloide della corteccia peruviana individuato da Liebig nel 1838 alle cui proprietà danno ulteriore sviluppo gli studi sul plasmodio di cui sono protagonisti, a partire da metà degli anni Ottanta, Ettore Marchiafava, Camillo Golgi e Angelo Celli. Prodotto in forma medicinale dalla Farmacia militare di Torino, dal 1900 il chinino di Stato sarà in vendita nelle privative di tabacchi. Paradosso utile, riferendosi alle convinzioni popolari, ben dure a morire, anche se la malaria è debellata il contadino meridionale continua a pensarla come fenomeno ineluttabile, al pari della pellagra, che funesta il versante Nord del Paese, ritenuta anch’essa, nell’immaginario rurale, un guaio cui non si può porre rimedio.

Si deve a Scipione Riva-Rocci, nel 1896, la semplificazione dello sfigmomanometro messo a punto nel 1881 dall’austriaco Samuel Siegfried Karl Ritter von Basch. Riva-Rocci impiega semplici oggetti (un calamaio, del mercurio, una camera d’aria di bicicletta) per dare vita a un apparecchio di piccole dimensioni, utile sia in sala operatoria sia nelle guardie mediche. Lo sfigmomanometro di Riva-Rocci desta viva curiosità nel celebre neurochirurgo americano Harvey Cushing che programma un viaggio in Italia per sincerarsi delle peculiarità del nuovo apparecchio. Cushing ne è entusiasta, lo fa perfezionare negli Stati Uniti e lo sfigmomanometro si diffonde ben presto in tutto il mondo.

Verso fine secolo aumentano i protagonisti sulla scena dell’industria farmaceutica italiana: a chi brilla ormai da decenni, Giovanni Battista Schiapparelli e Carlo Erba, si affiancano Lodovico Zambeletti e Roberto Giorgio Lepetit. Ciascuno di loro, per estrazione sociale e impostazione scientifico-manageriale, dà vita a imprese che muovono da una farmacologia calibrata più sui bisogni sanitari dell’alta borghesia che su quella dei ceti umili e medi. Ma è rilevante il loro ruolo di imprenditori privati, anche se non sono in grado, al momento, di fornire risposte alle emergenti richieste di salute dei contadini, degli operai, degli impiegati italiani.

 

 

Elenco delle puntate

Ultimo aggiornamento (Mercoledì 06 Aprile 2011 15:21)