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1941-1950: la rivoluzione farmacologica
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Sport &  Medicina, 150 anni della nostra vita

1941-1950

La rivoluzione farmacologica

 


La scoperta dei sulfamidici e, successivamente, degli antibiotici coincide con quella che la storiografia definirà “rivoluzione farmacologica”. Limitandoci al caso italiano, non vanno però sopravvalutati gli effetti del fenomeno sul miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie del Paese, frutto di politiche decennali volte a combattere le malattie infettive più gravi e di una legislazione sociale che comincia a fornire un supporto al cittadino-lavoratore che debba affrontare la malattia, l’invalidità e la vecchiaia. Sono lì a testimoniare questi indubbi progressi i dati demografici antecedenti gli anni Quaranta, relativi cioè al periodo pre-sulfamidici: dal 1882 al 1938 la vita media è passata dai 33 ai 55 anni, mentre su mille morti l’incidenza degli ultrasettantenni è passata da 12 a 30.

Giunti quasi al termine del ventennio fascista, non si può fare a meno di porre il quesito, già posto mille volte per gli intellettuali umanistici, su come la scienza medica si sia posta nei confronti della dittatura. Volendo rendere conto di una situazione ovviamente variegata, si può affermare che convivono in quegli anni cruciali insigni medici, per lo più clinici e igienisti, apertamente schierati con il regime e studiosi di grandissimo spessore che operano però più appartati − nei laboratori, negli istituti dove si pratica la scienza di base − in una sorta di cono d’ombra di cui le autorità non hanno percezione. Abbiamo già detto di Eugenio Morelli, padre della tisiologia in Italia ed esempio tipico di luminare che ha aderito toto corde alla dottrina fascista.

Non mancano i centri di eccellenza del tutto alieni da qualsiasi compromissione. Non di una vera fronda si tratta e tanto meno di un’aperta opposizione a chi governa, ma di una saggia discrezione che consente a questi scienziati di condurre i propri studi in piena autonomia, senza condizionamenti politici. È il caso dell’Istituto anatomico di Torino diretto da Giuseppe Levi (1872-1965), che per primo introduce in Italia il metodo della coltura dei tessuti in vitro. Alla sua scuola crescono, ancor giovanissimi, Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini: tutti e tre nati attorno agli anni Dieci, tutti e tre espatriati per proseguire gli studi, tutti e tre premi Nobel per la medicina nei decenni successivi. Con le leggi razziali del 1938, Levi viene epurato in quanto ebreo. Stessa sorte capita a Mario Camis, direttore, prima a Parma e poi a Bologna, di Istituti di fisiologia di prima grandezza. Suo allievo è Giuseppe Moruzzi, padre della neurofisiologia italiana, che come aveva fatto in precedenza il suo maestro va a perfezionarsi in Inghilterra, a Cambridge. E ancora, un’epurazione in chiave antisemita colpisce Mario Donati, chirurgo emerito a Padova, Torino e Milano.



In declino le patologie endemiche in qualche modo collegate al periodo di incubazione dell’Italia unita, comincia a diffondersi “il male del secolo”, il cancro. Dal 1925 il Paese può vantare un centro di assoluta eccellenza, l’Istituto per lo studio e la cura dei tumori, intitolato a Vittorio Emanuele III. La fondazione dell’Istituto si doveva in particolar modo all’intraprendenza della borghesia illuminata milanese, che aveva trovato una sponda favorevole nello storico sindaco Luigi Mangiagalli. Ostetrico e ginecologo di chiara fama, Mangiagalli fu senatore del Regno e artefice massimo della nascita, nel 1923, dell’Università di Milano, di cui fu primo rettore. Grande il contributo fornito all’Istituto tumori da Pietro Rondoni (1882-1956) − autore di fondamentali studi sulla biochimica del cancro − che ne assume la direzione a metà degli anni Trenta: “Il problema dei tumori maligni che in ogni paese civile falciano in dieci anni tante vittime quante ne mieterebbe una grande guerra, è un vasto e complesso problema biologico, ma purtroppo anche un doloroso problema umano”.

Le parole di Rondoni suonano anacronistiche, a posteriori, quando cioè si fa il computo dei caduti nella seconda guerra mondiale: 55 milioni di morti complessivi, 415.000 solo in Italia. Il nefasto proclama di Mussolini dal balcone di Piazza Venezia, il 10 giugno 1940, conduce in guerra un paese ancora arretrato e un esercito male armato, mandato allo sbaraglio su più fronti. La guerra significa morte, fame, sottrazione della componente maschile giovane alla forza lavoro. Ed ecco allora il ritorno di malaria, tubercolosi, sifilide, che ora vanno di pari passo con patologie “nuove” come quelle tumorali e dell’apparato digerente. E che dire delle epidemie che si diffondono tra le truppe? Tifo e dissenteria sono compagne fedeli dei militari, oppressi, oltre che da una cronica malnutrizione, da situazioni ambientali spaventose, come quelle affrontate dall’Armir nella tragica campagna di Russia.

Nel 1945 lo scozzese Alexander Fleming riceve il Nobel per la scoperta della penicillina. Fulcro delle sue ricerche lo studio dell’azione inibente sugli stafilococchi esercitata da colonie di una muffa comune, la Penicillium notatum, di cui riesce a individuare l’attività antibatterica, efficacissima contro la polmonite. Pochi anni dopo il russo naturalizzato americano Selman Waksman, a sua volta premio Nobel nel 1952, scopre la streptomicina, “killer” della Tbc. È cominciata l’era degli antibiotici, è finita quella in cui il buon medico sapeva individuare la malattia − dall’alto delle sue conoscenze scientifiche e dell’occhio clinico − ma non aveva i mezzi per curarla.

 

Mancano le risorse finanziarie ma non i cervelli, come quello di Giuseppe Brotzu, igienista dell’Università di Cagliari. È lui a isolare, dalle acque putride di uno scarico fognario, il Cephalosporium acremonium, fungo dall’attività antibatterica che porterà alla scoperta di una nuova classe di antibiotici: le cefalosporine. Nel dopoguerra Brotzu opera anche come consulente di quel Progetto Sardegna che, dal 1945 al 1951, con il contributo fondamentale della Rockfeller Foundation, intende eradicare la malaria causata dalla zanzara anofele, attraverso il diclorodifenil-tricloroetano, più noto come Ddt.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Last Updated (Thursday, 12 May 2011 10:47)